Ideazione e regia di Lisa Ferlazzo Natoli
Con gli allievi attori del II anno accademico
Silvia Corona Virginia Nobilio Gianmarco Mazzeo
Maria Sivo Gianmarco Vettori
ideazione e regia
Lisa Ferlazzo Natoli
adattamento
Silvia Corona Virginia Nobilio Gianmarco Mazzeo Maria Sivo Gianmarco Vettori
aiuto regia e dramaturgia
Silvio Impegnoso
“Tutte le famiglie felici si assomigliano,
ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
Anna Karenina
Lev Tolstoj
Chi ha ucciso Germaine Piedboeuf sfondandole il cranio a colpi di martello? E perché il corpo è stato gettato nelle acque torbide della Mosa solo tre giorni dopo l’assassinio? Insomma, che cosa ci faceva Germaine in quel posto? Qualcuno accusava i fiamminghi di avere ucciso una giovane donna, ma non era nemmeno sicuro che fosse morta! Non c’erano prove. Non c’erano indizi.
1933 – siamo a Givet, minuscolo paese della Francia proprio accanto alla frontiera belga, diviso in due comunità, francese e fiamminga. Givet ventosa e grigia, tagliata a metà da due nazioni e due lingue, e da un odio sottile come la pioggia che non smette mai di cadere. Piena dei rumori e degli odori di due comunità, scandisce i suoi giorni tra riti, omissioni e desideri affogati in acquavite o tra le note pastose di un pianoforte. Givet tagliata anche dalla Mosa, il grande fiume opaco lungo cui tutto il traffico di battelli si muove, aspetta o si arena nel fango.
Sotto il racconto poliziesco, la ricostruzione di un omicidio, una faida tra famiglie e la pioggia di Givet, di cosa parla veramente questa storia? Cosa si muove tra le case grigie e il fango mentre il resto d’Europa sente il nazismo premere ai confini?
Raccontare un romanzo a teatro vuol dire acchiappare un’aria, un andamento e trattenerne il linguaggio lasciandogli anche la nitidezza sorprendente di una storia nata là per là, fuori dalle pagine di un libro. Riscrivere un romanzo per il teatro significa seminare l’impressione che i personaggi vengano da molto lontano, che abbiamo cominciato a muoversi in una vita restata ‘fuori campo’ di cui s’intravedono tracce, indizi, qualche nota di colore, un segreto sussurrato d’improvviso, un mucchietto d’oggetti abbandonato alla polvere e istantanee fotografiche scattate per caso. Trasformare questo romanzo in teatro ha richiesto uno ‘certo’ sguardo su fatti e persone, come se sempre qualcosa sfuggisse, come se il colore di un abito nascondesse più di ogni parola, come se la verità fosse sommersa in un’infinita serie di minute e inevitabili menzogne. Posizione liminare e obliqua che permette di trasformare il racconto in partitura esclusivamente fisica o lasciare sulla scena svuotata solo la magnifica Chanson de Solveig di Grieg, che fa eco a tutto il romanzo. E continuare a seguire, come cani da tartufo, le tracce del commissario Maigret che s’imbeve degli odori e delle immagini, parla con i sospettati, i vicini di casa, i frequentatori dei bar, beve grog, annusa l’aria e osserva le case, senza assolutamente spiegare il filo logico che lo condurrà a scoprire l’assassino, perché alla fine un filo logico, non esiste. Maigret che – come noi – è poco più di un ospite straniero, aspetta e lascia fare. E quando avrà trovato l’autore del delitto se ne tornerà a casa, lasciando alla propria rovina “La Casa dei Fiamminghi”.